Conferenza IARPP 2022

Conferenza IARPP | Rebecca Rossi Psicoterapeuta

Conferenza IARPP 2022

Espandere la nostra pratica clinica: il detto, il non detto e l’indicibile

in psicoanalisi e psicoterapia relazionale.

A metà giugno, finalmente, ho preso un volo per Los Angeles e ho partecipato alla diciottesima conferenza della IARPP, l’Associazione Internazionale di Psicoanalisi e Psicoterapia Relazionale. Finalmente, perché è stata rimandata per due anni causa Covid; io la aspettavo da tre. Infatti, già nel 2019 era stata inviata la lista di relatori per la conferenza del 2020, tra i quali, con grande gioia ed agitazione, comparivo anche io.
L’intervento che avevo originariamente preparato è cambiato notevolmente, a sottolineare quanto la pratica clinica avanzi in soli due anni. Ho parlato di trauma e dissociazione, tematiche di enorme interesse per me, collegandole alle ultime scoperte neuroscientifiche in merito, altro argomento che ormai da qualche anno mi affascina.

L’importanza del ritrovarsi.

Gli stimoli sono stati tantissimi, le emozioni anche, per non parlare dell’arricchimento professionale e personale con il quale sono tornata a casa. Per ogni lavoro è importante rimanere aggiornati e confrontarsi con colleghi (ancor meglio se internazionali), ma penso che per noi psicoterapeuti sia ancora più imprescindibile. Molti di noi lavorano solo privatamente, ritrovandosi spesso nella solitudine del proprio studio, e dovendosi creare spazi di condivisione per dubbi, sconforti e gioie propri di questo lavoro. Per quanto mi riguarda, settimanalmente vedo il mio supervisore, bimensilmente un gruppo di colleghe online per confrontarci sui casi clinici, e cerco di partecipare attivamente agli eventi importanti come questa conferenza. Dopo il covid, poi, la voglia di tornare in presenza, in una full immersion di tre giorni era agli estremi. E il risultato è stato ottimo.

L’uguaglianza nella diversità.

Oltre alla soddisfazione di presentare un mio contributo per la prima volta oltreoceano, sono entrata in contatto con l’uguaglianza della diversità: nonostante lingue e culture differenti, infatti, le difficoltà, le perplessità, i traguardi felici e quelli meno, sono gli stessi per tutti nella professione psicoterapeutica. Siamo accomunati dall’esperienza potente e alle volte travolgente dell’essere analisti in continua evoluzione, discussione e formazione. Le barriere, quando si parla di umanità, non esistono: siamo tutti uguali nella nostra diversità.

Alcuni spunti interessanti che voglio condividere.

 

Nel primo panel cui ho assistito, si è parlato di mente, corpo e cervello in analisi, discutendo delle varie metodiche con le quali insegnare ai pazienti ad usare tutti i propri sensi. Nel mio piccolo, da qualche anno ho iniziato ad integrare le conoscenze di respirazione yoga nelle mie sedute, o esercizi di grounding ispirati agli studi sulle esperienze somatiche, per rendere la mia pratica clinica sempre più completa e, in questo modo, aiutare al massimo i miei pazienti. Mente, corpo e cervello sono una cosa sola, ne sono sempre più convinta. Interessante, il dibattito che si è creato in merito a “quanto è psicoanalitico usare queste tecniche?” dato che in psicoanalisi la partecipazione dell’analista deve essere ridotta ai minimi termini. Personalmente, ritengo interessante la questione da un punto di vista teorico, meno da quello pratico, lavorando più seguendo la mia teoria che non La teoria. Cosa intendo?
Intendo che, per quanto mi riguarda, la teoria deve servire da luce, faro guida in un certo senso, ma non deve diventare una gabbia per il terapeuta: la relazione e la soggettività del terapeuta devono essere tenute in considerazione nell’interazione con il paziente, e ciò che si crea da essi è il vero motore del cambiamento terapeutico.

Il panel successivo vedeva come argomento di discussione la dissociazione come rischio e come strumento. Qui ho avuto modo di intervenire portando un contributo su come la dissociazione possa essere uno strumento qualora il terapeuta ne sia consapevole e abbia gli strumenti adatti per utilizzarla nella relazione. Le mie colleghe, invece, hanno parlato di come, in un caso, la dissociazione sia stata non solo un rischio, ma un vero e proprio ostacolo alla terapia e, nell’altro, di quanto possa essere usata in modo creativo dall’analista. Stiamo pensando, assieme, di unire gli interventi e creare un articolo. Aspetterò allora per approfondire ulteriormente questi concetti.

Si è poi parlato di come fare i conti con la catastrofe: il nostro mondo sarà mai uguale a prima? Gli interventi in questo caso hanno virato soprattutto attorno a Covid e guerra, avanzando l’ipotesi che non abbiamo ancora superato questi traumi come collettività, dal momento che ci  siamo ancora immersi e che, forse, non li supereremo mai. Mi è rimasta impressa questa frase di Glen Gabbard “We don’t get over things, they stay with us” ossia “non superiamo le cose, rimangono con noi” alla quale ha aggiunto che il dovere di ogni terapeuta, per lui, dovrebbe essere conoscere i fantasmi del proprio passato e far conoscere ai suoi pazienti i loro.

Interessante il concetto di analisi reciproca di Rudnytsky, che ha ricreato l’analisi di Ferenczi ad Elizabeth Severne, analisi che ha poi posto le origini della sua teoria del trauma. Come ha fatto?
Attraverso un “true work of history” “un vero lavoro storico” ovvero analizzando i diari clinici di Ferenczi e la corrispondenza privata di Severne, incrociando tra loro ogni dato emerso. Un lavoro certosino, unico e preziosissimo!

Cosa è emerso dagli interventi.

Vari contributi hanno sottolineato l’importanza dell’empatia, intesa come conquista della complessità relazionale: tra essi, quello che mi ha colpito maggiormente è stato un intervento a quattro mani di Susanna Federici e Gianni Nebbiosi, dell’ISIPS (Istituto di Specializzazione in Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale) in merito alla mimica dei pazienti. Nonostante il loro sia un lavoro presente già da anni, non ne avevo mai sentito parlare. Consiste nel mimare i gesti del paziente dopo la seduta (quelli che ci hanno particolarmente colpito) mentre ragioniamo sul caso: a loro parere questi sono mini enactments (rappresentazione) che aiutano a livello incorporato nella comprensione del mondo interno del paziente, aprendo a nuove scoperte. Infondo, tutti impariamo mimando, no?

E ancora, si è discusso di vergogna, trauma e soggettività dell’analista, della comparsa di significato che può nascere da esperienze non formulate, ossia inconsce, delle implicazioni cliniche della soggettività dell’analista, dell’impatto che la sua cultura di provenienza, la sua psiche e la sua anima hanno all’interno della relazione terapeutica.

L’utilità della teoria.

Mi è molto piaciuta l’idea condivisa da molti di usare la teoria, la cornice di riferimento entro la quale si lavora, come spunto per continuare ad immaginare, vedendo l’immaginazione come elemento di cambiamento terapeutico, bidirezionale. E ancora, l’idea che non sia importante solo stare con il paziente, come davo per scontato da tempo, ma che sia altrettanto importante “lasciarlo solo” per dargli l’opportunità di sviluppare la propria voce ed individualità, eventualità sulla quale non mi ero mai soffermata a riflettere e che condivido a pieno.

Vorrei chiudere con una frase da tenere a mente, citando Steven Tublin, con un concetto che spesso dimentico, e che condivido con tutte quelle persone che hanno necessità di cambiamenti veloci:” The slower you go the faster you go” (più piano vai più veloce andrai) per sottolineare che il processo terapeutico richiede il tempo che richiede, la fretta in questi casi non può che essere cattiva compagna.

Se vorrai, potremo sfruttare insieme tutti gli spunti che ho imparato in questa mia esperienza, trovi qui i miei contatti.