19 Mar COVID-19. Le mie riflessioni.
Mai avrei pensato che mi sarei trovata a scrivere sul COVID-19. Mai, dico mai, avrei pensato di vivere un momento così surreale. Perché ammetto di far parte di quella fetta di italiani che inizialmente avevano preso la situazione alla leggera.
E, invece, eccomi qua, sul balcone di casa, in quarantena da 10 giorni, a scriverne. In balcone perché cerco di ricavare forza, vitalità e conforto da qualsiasi parte io la trovi; dal sole ne ho sempre ricavata tantissima.
E penso alla situazione di “privilegio” se così possiamo dire, ai tratti che la mia posizione personale può avere in questo momento: per lo meno ho un balcone, c’è il sole, non sto passando la quarantena sola. E lavoro, meno male che lavoro. Meno male per me e meno male per il lavoro che faccio: un contributo posso darlo, seppure minimo.
E poi ci penso meglio: è davvero così minimo? Forse, probabilmente, no. Non sono l’unica (ho letto vari pensieri di miei colleghi) a rivolgere lo sguardo alle difficoltà psicologiche implicate in questa situazione. Sia inerenti al COVID-19 che alle misure adottate per sconfiggerlo, misure che minano alla nostra libertà ma che giustamente tutti (o quasi tutti, purtroppo) stiamo rispettando.
E la mia mente si divide in una specie di brainstorming che faccio fatica a domare, non so davvero a cosa sto pensando, a dove rivolgere la mia attenzione, a cosa sia più importante, cosa meno. Penso ai sentimenti di confusione, incertezza, ansia, rabbia, paura, noia, disagio che tale situazione porta, alle conseguenze sanitarie, psicologiche, economiche, sociali, politiche, demografiche che stiamo affrontando ma che soprattutto saremo costretti ad affrontare in futuro.
Il futuro. Quale futuro?
Qual è l’orizzonte temporale che dovremmo darci? Nessuno lo può sapere con certezza. Incertezza, quindi, altra generatrice di ansia: non possiamo sapere quando finirà. Una data di termine, una data cui anelare, è impossibile averla. E in questo futuro remoto, in questo futuro incerto, sarà fondamentale pensare al nostro personale ospedaliero, tanto instancabile adesso quanto vulnerabile domani, quando le ripercussioni di questo loro lottare strenuamente potrebbero farsi sentire, in un vero e proprio disturbo post traumatico da stress o in burnout, che già in molti stanno sperimentando, probabilmente. Sarà fondamentale, è fondamentale, pensare anche ai sopravvissuti al COVID-19.
I sopravvissuti, noi, che ora ci sentiamo in gabbia, privati della libertà personale ma che, rispetto a “loro”, agli operatori in prima linea, viviamo protetti, forse privilegiati (una parola che torna), noi in futuro potremmo invece sentire le ripercussioni di questo momento. Adesso non tutti le sentono: abbiamo grandi meccanismi di difesa che ci aiutano ad attraversare momenti di crisi, come la negazione (negare che qualcosa di reale esista, come la possibilità di essere contagiati dal COVID-19, ad esempio). Ma, prima o poi, la realtà si fa strada, e non sempre si è in grado di affrontarla e reggerla.
Cosa possiamo fare noi professionisti
Siamo noi, professionisti della salute mentale, che dobbiamo essere pronti ad accogliere ed aiutare al meglio questi sopravvissuti, ora e domani. Ora, offrendo supporto psicologico a chi lo richiede, tramite interventi via web, che siamo fortunati a poter effettuare. Domani, rimboccandoci le maniche per fronteggiare una sofferenza che aumenterà, forse modificandosi nei contenuti e nelle manifestazioni, forse mostrandosi individualmente ma essendo riscontrabile anche socialmente.
Molti stanno cercando di riflettere in termini positivi, ma penso che sia doveroso riflettere anche sull’impatto negativo che tutto ciò avrà, proprio per evitare di cadere in meccanismi disfunzionali, già menzionati. Infatti, considerando la diminuzione dell’inquinamento riscontata in questi giorni di fermo, mi chiedo se sia davvero bastata ad aumentare la sensibilità verso il riscaldamento globale e/o se queste “buone abitudini forzate” continueranno. Se pensiamo allo smartworking, mi chiedo se le aziende italiane si renderanno conto dei benefici che apporta e troveranno modalità per promuoverlo maggiormente. E, ancora, riusciranno le persone a ritrovarsi, deprivate della loro identità lavorativa, nella quale molti si rifugiano? O si perderanno ulteriormente, andando ad accrescere le sensazioni di smarrimento, ansia, impotenza, rabbia già citate? Quanto durerà la riscoperta del tempo per sé e per una vita più sana e genuina (esercizio fisico, buona cucina, beauty routines)? E che dire dell’’importanza della condivisione nell’affrontare i momenti difficili (chiamare amici e parenti che non si sentiva da tempo, organizzare pranzi via skype e così via)?
In
molti, poi, stanno sottolineando positivamente il senso civico e il patriottismo
degli italiani. Ma possiamo davvero parlare di patriottismo e senso civico?
Sono molto d’accordo con uno statement di Crepet che sottolinea come la fase
attuale si possa ascrivere ad una fase “maniacale” e che, quindi, è facile
aspettarsi tra un po’ la conseguente fase “depressiva” [1], con tutte le conseguenze
negative del caso. [2]
Lo stesso articolo mi ha fatto riflettere su quanto la situazione attuale faccia
emergere anche l’onnipotenza con la quale stanno crescendo gli adolescenti e i
giovani adulti, per i quali tutto è dovuto e non esiste restrizione alla
propria libertà, al proprio essere. Sono giovani dimentichi che “la libertà si conquista e non è mai per sempre” (sempre Crepet), una generazione per lo più non abituata a
tollerare la frustrazione, che spesso si reca nei nostri studi proprio per tale
motivo (inconscio) perché, invece, il mondo è anche frustrazione.
[1] Mania e depressione sono due difese interconnesse: sviluppiamo difese e comportamenti “maniacali” per evitare di sperimentare i sentimenti depressivi sottostanti. La lettura di Crepet in merito all’entusiasmo patriottico degli ultimi giorni può esserne un esempio.
[2] Qui il link dell’intervista: https://www.huffingtonpost.it/entry/gli-italiani-ma-quale-senso-civico-intervista-a-paolo-crepet_it_5e6fad34c5b6125e095b1dfa?mxo&utm_hp_ref=it-homepage
La frustrazione vista con gli occhi dei pazienti
Attualmente la frustrazione è ai livelli massimi. Oltre ai motivi già citati, penso che anche la sballata percezione del tempo abbia un ruolo in questo. C’è chi ha perso la routine data dal lavoro, chi lavorando da casa ha l’agenda scombussolata, chi si trova senza impegni, incapace di riempire le giornate con qualcosa di appagante per sé. Ci si scopre lontani da sé, si scopre di non avere più passioni, forse. Di avere dato delle priorità non proprio calzanti, forse.
Un mio paziente, in collegamento Skype, mi ha confidato: “non so più chi sono senza il mio lavoro. Soprattutto, penso che se il mio lavoro non ci sarà più alla fine di questa emergenza, mi sono perso per niente… Cosa sono io, davvero? Cosa voglio?” Presumibilmente, in molti si troveranno nella sua situazione, sperimentando le emozioni più contrastanti: paura, data dal senso di smarrimento; rabbia e rammarico per il tempo “perso”; ma forse anche uno strano senso di potenza e vitalità, per essersi riappropriati di qualcosa di personale e sfruttarlo al meglio, verso una nuova riscoperta di sé.
Sicuramente, imporsi degli obiettivi e delle regole aiuterà molto ad affrontare questo periodo: impostare una sveglia per evitare scombussolare il ritmo circadiano[1]; effettuare esercizio fisico per mantenersi attivi ed aiutare l’umore, cercare di mangiare regolarmente… Insomma, cercare di mantenere un senso di “normalità” in una situazione che di normale non ha nulla.
Una società psicoanalitica della quale faccio parte, ha aperto una mailing list sulla situazione attuale e, seppur sapessi a livello razionale quanto sia importante mantenere i contatti in periodi di isolamento, sperimentarlo sulla mia pelle è un’altra cosa: fare rete è vitale per non sentirsi soli ed isolati, a livello lavorativo, familiare, amicale, ma anche (in questo caso) nazionale.[2]
Siamo animali sociali e in questo momento più che
in altri il bisogno del prossimo si sente imponente e dobbiamo ascoltarlo: la
distanza di sicurezza che dobbiamo mantenere è fisica, non sociale.
[1] Ossia il ritmo che regola le nostre funzioni biologiche, tra le quali il ciclo sonno-veglia.
[2] Invito a leggere il libro di Clara Mucci “Trauma e perdono” per un approfondimento inerente alla tematica dell’importanza della relazionalità per superare eventi traumatici limitando i danni. Nel caso del libro, si parla addirittura di sopravvivenza, dato che riporta vari casi di sopravvissuti alla Shoah grazie a ciò.