Psicofarmaci: cosa sono e come agiscono. Sfatiamo qualche mito.

Psicofarmaci: cosa sono e come agiscono. Sfatiamo qualche mito. | Rebecca Rossi Psicoterapeuta

Psicofarmaci: cosa sono e come agiscono. Sfatiamo qualche mito.

Quando e se propongo a un paziente di ricorrere agli psicofarmaci per alleviare il proprio sintomo, vado incontro ad un muro di paura e pregiudizi. Eppure, in Italia il consumo di essi è altissimo. Come mai?
Personalmente, ritengo che ci sia tantissima disinformazione ed eccessivo abuso di prescrizione da parte dei medici di base, così come un ricorso ad essi quando i pregiudizi sono anche verso la psicoterapia o quando è troppo tardi per riuscire a stare meglio solo grazie a quest’ultima. Andiamo a vedere più approfonditamente cosa sono gli psicofarmaci, quando è meglio prenderli, quando no, e come funzionano.

 

Psicofarmaci: come funzionano.

Con il termine psicofarmaco si indicano tutti quei farmaci che vanno ad agire sul sistema nervoso centrale, ossia che implicano il rilascio o l’inibizione dei neurotrasmettitori, quelle sostanze che permettono la comunicazione tra neuroni. Proprio come il nostro organismo si avvale di diversi neurotrasmettitori, la farmacologia si avvale di diversi psicofarmaci in base ai principi attivi che li compongono, ai meccanismi con i quali si attivano questi principi, in base alle indicazioni terapeutiche e a controindicazioni ed effetti collaterali.

Possiamo suddividerli in quattro grandi categorie, in base all’azione che hanno sui sintomi:

  • antidepressivi, a loro volta suddivisibili in inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, i cosiddetti SSRI (es. paroxetina, citalopram, sertralina, fluvoxamina…) e gli antidepressivi triciclici, ormai meno usati (es. amitriptilina, dotiepina, imipramina, clomipramina…). Questi ultimi, sono i responsabili di molte paure che oggi si hanno rispetto agli effetti collaterali: infatti, intervenendo in modo diverso rispetto agli SSRI, possono provocare maggiori effetti collaterali. Oggi, invece, grazie all’avvento degli SSRI, possiamo intervenire in modo più mirato ed efficace, rendendo più facile all* psichiatra trovare un antidepressivo adatto per il paziente, bilanciando pro e contro della sua azione e senza andare incontro ad effetti collaterali;

 

  • antipsicotici, tra i quali troviamo quelli di prima generazione (es. flufenazina, tioridazina, clorpromazina…) e seconda, più utilizzati (es. aripiprazolo, clozapina, ziprasidone…). Di tutte le categorie di psicofarmaci, questi sono i meno tollerati, ossia sono quelli che hanno maggiori probabilità di indurre effetti collaterali. Tuttavia, essendo utilizzati per sintomatologie quali deliri, allucinazioni, comportamenti disorganizzati, i benefici superano di gran lunga gli eventuali effetti collaterali. Non creano dipendenza ma la loro sospensione può far sì che si ripresentino i sintomi appena menzionati. Per il fatto che non creino dipendenza né tolleranza (ossia che il dosaggio può rimanere sempre lo stesso senza dover aumentare la dose per ricavare gli stessi effetti) sono talvolta usati anche come ansiolitici o come rimedi per l’insonnia;

 

  • stabilizzanti del tono dell’umore, il più famoso dei quali è il litio e a seguire il valproato di sodio. Sono prevalentemente utilizzati per il disturbo bipolare e loro caratteristica fondamentale è che devono essere assunti costantemente per un corretto dosaggio nel corpo, che va valutato attraverso analisi del sangue. Sono inoltre necessari altri accertamenti clinici (elettrocardiogramma, funzionalità renale e tiroidea) prima della loro assunzione, da monitorare ad intervalli regolari per tutta la durata del trattamento;

 

  • ansiolitici (es. tavor, xanax, en, lexotan…) tra i quali compaiono le benzodiazepine, molto prescritte per la loro efficacia nel breve termine, al contrario dei farmaci precedentemente in commercio, senza però pensare alla dipendenza che possono creare. Infatti, avendo un’elevata tolleranza, spesso inducono alla dipendenza in quanto le persone tendono ad aumentarne i dosaggi senza l’ausilio del medico per arrivare all’effetto voluto, in precedenza magari raggiunto con dosaggi moderati. Per questo motivo viene sconsigliato il loro utilizzo per periodi prolungati e, come per tutti gli psicofarmaci, è imprescindibile la prescrizione medica, anche nel lungo periodo. Spesso le benzodiazepine vengono utilizzate assieme agli antidepressivi, dato che molte forme ansiose hanno una componente depressiva e viceversa.

Se vuoi saperne di più su come agiscono gli antidepressivi e gli ansiolitici clicca qui “Come vincere la depressione ansiosa”.

 

Come prescrivo gli psicofarmaci.

Gli psicofarmaci sono prescrivibili da qualsiasi medico ma ritengo di imprescindibile importanza che una valutazione venga fatta da un* specialista psichiatra in quanto ha maggiori e più adeguate competenze per una corretta visione del caso ed inerente prescrizione.

Da psicoterapeuta, quando ritengo opportuna l’assunzione di essi (tra poco scriverò meglio quando) suggerisco sempre un* psichiatra con il/la quale poter collaborare per tutta la durata del trattamento perché le due professionalità si affiancano e completano, andando a delineare il miglior trattamento possibile per la persona in questione. Così facendo, è possibile anche monitorare eventuali effetti collaterali che si possono presentare, in quanto vedo i pazienti più frequentemente dell* psichiatra e li conosco meglio.

 

Ci sono effetti collaterali?

Se adeguatamente prescritti e monitorati, gli psicofarmaci di norma apportano maggiori benefici che effetti collaterali. Questi ultimi, sono alla stregua di quelli che si presentano assumendo qualsiasi altro medicinale: non si riscontrano in tutte le persone, alcune sono più predisposte di altre, come per ogni cosa. Solitamente, il lavoro psichiatrico è quello di iniziare con dosaggi minimi fino a raggiungere l’effetto desiderato, in modo da valutare come il corpo e la mente del soggetto in questione reagiscono. Importantissimo, poi, è continuare a seguire le prescrizioni mediche: infatti, una delle conseguenze peggiori ma evitabili è il rebound, ossia la recrudescenza dei sintomi quando si smette improvvisamente di assumere il farmaco, scansabile se si segue alla lettera la modalità di diminuzione della terapia che l* specialista prevede.

Tra gli effetti collaterali più comuni ci sono: secchezza delle fauci, nausea, disorientamento, cefalea, modificazioni nella sfera sessuale e in quella del sonno. Ma prima di lasciarsi spaventare, è bene ricordare quali effetti collaterali sono riportati sul bugiardino di qualsiasi farmaco! Eppure, non esitiamo a prenderli. Questo perché, come tutto ciò che riguarda la sfera psi, abbiamo preconcetti e paure insite, delle quali spesso non siamo nemmeno consapevoli.

 

Sfatiamo preconcetti e paure verso gli psicofarmaci.

Due sono gli esempi ai quali ricorro sempre quando tratto di psicofarmaci coi miei pazienti, per sfatare alcuni di questi pregiudizi radicati.

Il primo è quello del diabete: se vi venisse prescritto, rifiutereste l’insulina? Sicuramente no.
E allora perché rifiutare un altro tipo di molecola che può aiutare a stabilizzare il vostro umore o a diminuire la vostra ansia?

Il secondo è quello della tachipirina: se ho la febbre prendo la tachipirina per abbassarla, per curare un sintomo, consapevole di non risolvere il problema, in quanto l’origine della febbre è altro (se virale prenderò un antivirale, se è batterica un antibiotico e così via). Lo stesso vale per farmacologia e psicoterapia: il farmaco cura il sintomo, fa stare meglio più nell’immediato; la psicoterapia ad esso affiancata ha lo scopo di curare ciò che ha fatto esacerbare il sintomo, in modo da non dover più ricorrere al farmaco in futuro.

 

Da dove vengono le paure più comuni?

Alla base delle paure ci sono il pensiero che gli psicofarmaci:

  • creano dipendenza (errato, se adeguatamente prescritti);
  • sono per i matti (errato, li assume chiunque ne abbia bisogno in un determinato momento);
  • modificano il carattere (errato, continuiamo ad essere noi stessi senza i sintomi che ci affliggono);
  • danneggiano il cervello (errato, vanno a modificare i circuiti dei neurotrasmettitori in maniera mirata e controllata);
  • si dovranno prendere per sempre (errato, dipende dalla persona, dal farmaco, dalla sintomatologia e dalla storia clinica. Alcune persone possono beneficiare dell’ausilio di uno psicofarmaco per breve tempo, altre per tutta la vita, ma per il loro benessere. Non è detto. E, ricordo, l’assunzione è volta al miglioramento della qualità della vita della persona, come l’insulina nei diabetici).

 

Quando consiglio gli psicofarmaci.

Sono solita consigliare farmaci laddove la situazione non può essere risolta nell’immediato con la psicoterapia, ad esempio:

  • quando i sintomi sono eccessivamente gravi da non permettere l’intervento psicoterapeutico (es. “dottoressa, finché accanto a lei c’è quel drago non intendo parlare”);
  • se il disagio è fortemente compromettente nella vita della persona (es. “non riesco a venire in studio, niente ha più senso, non mangio, non dormo…”);
  • per alleviare i sintomi propri di alcuni disturbi: es. gli sbalzi d’umore dei disturbi bipolari; l’impulsività dei disturbi borderline; le attivazioni fisiologiche degli attacchi di panico o dei grandi stati d’ansia; i disturbi del sonno della depressione; le disorganizzazioni emotive dei disturbi di personalità.

 

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